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Addio a Francesco Rosi, padre del cinema d’inchiesta

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Il regista Francesco Rosi con il premio ANSA/CLAUDIO ONORATI

È morto stamattina a Roma il regista Francesco Rosi, aveva 92 anni ed era nato a Napoli il 15 novembre 1922. Uno dei grandi del cinema italiano, Leone d’oro alla carriera nel 2012, già Leone d’oro (Le mani sulla città), Palma a Cannes (Il caso Mattei), Legion d’onore, e tributi alla carriera a Locarno e Berlino, per non parlare di Grolle, David, Nastri.

 

Francesco Rosi sarà celebrato in una cerimonia civile lunedì mattina, 12 gennaio, a partire dalle 9, alla Casa del cinema di Roma. Alle 12 lo ricorderanno i suoi amici più cari.

 

Una vita per il cinema. Perché Francesco Rosi piacque tanto al mondo cinematografico? Perché il suo stile elegante, eppure secco, d’autore eppure pungente e popolare nei suoi temi, ebbe così tanto successo? Ma davvero bastava tutto questo a renderlo il modello di un regista politico perfetto per il Dopoguerra, per gli anni del boom economico italiano e per quelli di Piombo? Davvero Francesco Rosi incarna i film d’inchiesta coniugati alla critica sociale? Che cosa c’è in lui che non esiste nel vistoso Luchino Visconti, nell’eccellenza di Elio Petri e nel più intimo Alberto Lattuada? La risposta è l’emancipazione. Francesco Rosi è uno dei registi più indipendenti, disinibiti e, per giunta, professionalmente realizzati che ci sono stati nel nostro cinema. È un uomo che ha saputo sottomettere la macchina da presa alla sua narrazione, facendo dell’Italia la nemica giurata di sé stessa. Il cinema con Rosi è libero, di agire e di parlare, di proporre tesi e di scontrarsi e lo ha fatto quando ha cominciato a cucire addosso ai grandi volti di quel cinema che fu (Gian Maria Volonté, Philippe Noiret, Lino Ventura) gli abiti di quegli uomini che furono protagonisti della Storia e delle storie di carta. È un angelo protettore del cinema politico e d’impegno, che ha tentato di uccidere con le inquadrature alcune delle zone d’ombra della nostra esistenza nazionale, partendo da quella classe dirigente che per essere votata dai cittadini, per avere ciò che voleva, per raggiungere i suoi sordidi e interessati scopi era pronta ad ammaliare con facile demagogia, a conciliare il proprio favore con quello delle organizzazioni criminali e a mentire spudoratamente. Uno Stato molto probabilmente privo di fascino, che non offre nessuna sicurezza economica ai suoi cittadini e che è pronta a farsi beffare dal primo nuovo e giovane volto corrotto che gli tende una mano. Lui ne ha fatto una questione morale, perché ha pensato che il primo compito di un regista fosse quello di essere impeccabile e di raccontare una nazione che sembra vivere sempre in quelle linee di confine, fra l’entrata di un nuovo ciclo politico, sociale e/o storico, mentre però sprofondava in tradizioni e mentalità medievali. L’Italia di Rosi è questa. È uno Paese che soffre di labirintite per la mancanza di equilibrio, che è sorretta a malapena e distrattamente da politici e uomini d’affari immaturi moralmente, storditi da soldi facili e ricchezze opulente. Ed è questa sua ricerca sfrenata di verità, di un’Italia migliore a spingerlo a compensare con il cinema le voragini di realtà.

 

Gli inizi da aiuto regista fra Visconti ed Emmer. Francesco Rosi nasce il 15 novembre 1922 a Napoli, figlio del direttore di un’agenzia marittima partenopea appassionato di caricature, fotografie e di cinema. A tre anni, vince un concorso fotografico indetto da una casa di produzione americana che cercava bambini somiglianti a Jackie Coogan (il bambino prodigio protagonista della pellicola di Chaplin Il monello). Per la premiazione, padre e figlio sarebbero dovuti andare a Hollywood. Il primo avrebbe tentato di sfondare come fotografo di scena e il secondo come attore. Sfortunatamente, è la madre di Francesco Rosi a opporsi al viaggio in America. Il bambino deve restare a Napoli, esattamente come il padre. Passano gli anni, all’insegna del fascismo e con l’arrivo della seconda guerra mondiale, Francesco studia giurisprudenza, anche se poi intraprende una carriera come illustratore di libri per bambini e, contemporaneamente, inizia a lavorare per Radio Napoli. È negli studi di registrazione dell’emittente che stringe amicizia con personalità come Aldo Giuffré, Raffaele La Capria e Giuseppe Patroni Griffi, con i quali collaborerà molto spesso in ambito teatrale. Ed è proprio grazie al palcoscenico e alla sua tessera del partito comunista italiano (PCI) che entra in contatto con personalità come Giorgio Napolitano, futuro Presidente della Repubblica Italiana. È il 1946 quando viene assunto da Ettore Giannini come assistente teatrale nello spettacolo “‘O voto” di Salvatore Di Giacomo, ma ad attirarlo maggiormente è il cinema ed è un passo brevissimo quello che lo porta dalle quinte dei più grandi teatri d’Italia al lavoro di aiuto regista, anche se inizialmente, si diverte un po’ a fare l’attore, come succede nel film con Nino Taranto, Isa Barzizza e Galeazzo Benti Dove sta Zazà? del 1927, firmato da Giorgio Simonelli, all’interno del quale recita il ruolo del domestico del ricco americano. Nel 1948, Luchino Visconti lo assume come assistente per La terra trema. Arriva la svolta. Visconti scopre che il ragazzo è portato anche per la scrittura cinematografica e così lo coinvolge nella scrittura di film come Bellissima (1951) con Anna Magnani. I due torneranno a lavorare insieme un’ultima volta con il capolavoro Senso (1954), dove Visconti dirigerà Alida Valli. A queste esperienze si sommano quelle di aiuto regista in melodrammi come Tormento (1950) con Amedeo Nazzari, in film più d’autore come I vinti (1953) di Michelangelo Antonioni e Proibito (1954) firmato da Mario Monicelli. Da non dimenticare i lavori come assistente di Luciano Emmer che avevano solitamente Marcello Mastroianni come protagonista (Domenica d’agosto, Parigi è sempre Parigi, Il bigamo).

 

Camicie rosse e Kean. Nel 1952, dirige alcune scene della pellicola Camicie rosse con la Magnani nelle vesti di Anita Garibaldi e diretta da Goffredo Alessandrini. Il film sfortunatamente non riesce come si vorrebbe e il dramma storico diventa una pellicola d’avventura mal riuscita. Nonostante questo Rosi si rimette a lavoro e, sempre come primo aiuto regista – stavolta però del grande attore Vittorio Gassman – firma Kean (1956), tratto dall’omonima commedia di Alexandre Dumas Padre. Rosi e Gassman riescono a unire discretamente e in maniera accurata cinema e teatro.

 

La sfida. Bisogna aspettare il 1958 per vederlo finalmente come unico regista sul set. E questo avviene con La sfida con Rosanna Schiaffino e Angela Luce. Il film, che ottiene il consenso di pubblico e critica, mette sotto i riflettori Rosi che finalmente esordisce come merita. La sua regia viene elogiata per sicurezza, mestiere, studio della trama e della sceneggiatura scritta con Suso Cecchi D’Amico ed Enzo Provenzale, con i quali dividerà il Nastro d’Argento per il miglior soggetto originale, ma anche il Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia, a pari merito con il film di Louis Malle Les amants.

 

I magliari. Nel 1959, dirige Alberto Sordi in I magliari, all’interno del quale l’attore romano interpreta un immigrato che lavora nel mercato delle stoffe fra Amburgo e Hannover e che si scontrerà con un boss napoletano per il controllo del settore. La critica di allora lo accusa di “tragicizzare” la sorte e il racconto – che comunque risulta fiacco, poco omogeneo e grottesco nella sua denuncia sociale e morale – non convince anche per un Sordi drammatico, che appare fin troppo frivolo per i loro gusti.

 

I film d’inchiesta. Negli Anni Sessanta, Rosi inaugura un nuovo filone cinematografico italiano: quello dei film inchiesta o dei cosiddetti film con argomento politico, all’interno del quale ripercorre le vite di chi ha segnato la recente storia d’Italia. Si parte con il suo capolavoro: Salvatore Giuliano (1962), malavitoso e bandito siciliano la cui esistenza è raccontata attraverso una serie di lunghi flashback anticronologici. Il film colpisce nel segno e Rosi ottiene l’Orso d’Argento al Festival di Berlino e il Nastro d’Argento come miglior regista (quest’ultimo premio ad ex aequo con Nanni Loy che, in quegli anni, firmava Le quattro giornate di Napoli, 1962). L’anno successivo, arriva un Rod Steiger da brivido nei panni del costruttore Eduardo Nottola in Le mani sulla città, che esplora le collusioni esistenti fra organi dello Stato e lo sfruttamento edilizio partenopeo. La pellicola, bella e coraggiosa per la sua dolorosa indignazione e la lucidità del secco racconto dei fatti, ottiene il Leone d’Oro al Festival di Venezia, ma anche due candidature ai Nastri d’Argento (miglior regista e miglior soggetto scritto con Raffaele La Capria).

 

Francesco Rosi è osannato come uno fra i maggiori talenti della sua generazione, carico di chiarezza e onestà intellettuale. Un David di Donatello lo attende nel 1965 per Il momento della verità. È, infatti, con Vittorio De Sica (che quell’anno dirigeva Matrimonio all’italiana), il miglior regista. Rosi si fa stile partendo dal suo modo di fare cinema sfruttando i documenti, cogliendo la realtà e compenetrandola con la macchina da presa che rimane comunque obiettiva, ma che non smette di essere strumento di commistione fra toni squillanti e più deboli.

 

La fiaba C’era una volta. Un unico momento di stacco da questo genere di pellicole così simili nelle loro trattazioni arriva con una perla favolistica veramente tanto cara all’Italia. La fiaba C’era una volta (1967), che vede come protagonista una graziosissima e scalza Sophia Loren e il divo lanciato da Il dottor Zivago Omar Sharif (anche se avrebbe voluto Marcello Mastroianni), è un oggetto di puro piacere fantastico per gli spettatori che si appassionano alle vicende di una contadina innamorata del Mezzogiorno che si innamora di un principe spagnolo e che cerca di farlo suo con stregonerie e l’aiuto di santi.

 

Uomini contro. Nel 1970, ritorna ai suoi temi con Uomini contro, tratto dal romanzo “Un anno sull’altopiano” di Emilio Lussu, in cui mette in scena tutta la sua oratoria antibellica e antimilitaristica, supportato dalla sceneggiatura di La Capria e di Tonino Guerra. Il film, come era prevedibile, non piacque alla Desta italiana, perché “sibilava” che durante la Grande Guerra furono spediti a morire solo i poveracci, mentre la panciosa borghesia se ne stava beatamente in poltrona.

 

L’attore feticcio: Gian Maria Volonté. Ma ancora più scottante sarà Il caso Mattei(1971) ispirato alla morte di Enrico Mattei, in cui mischia mirabilmente cronaca, documento e libera rievocazione miscelando interviste, vere testimonianze, diapositive e accurate ricostruzioni. Un linguaggio cinematografico antitradizionale su un personaggio e la sua Storia che delinea una nuova originalità nello stile del regista, tanto da fargli ottenere la Palma d’Oro a pari merito con La classe operaia va in Paradiso (1971). Dopo una piccola esperienza di attore in Venga a fare il soldato da noi (1971), nel 1973, dirige Lucky Luciano, un altro film sulla mafia che però punta il dito sui politici e sugli uomini d’affari (illegali) che pur di avere ciò che vogliono sono disposti a chiedere aiuto a Cosa Nostra, fingendo un ipocrita rispetto per la legge. Oltre a questo, i due film avranno il merito di lanciare nel panorama cinematografico una star come Gian Maria Volonté che si trasformerà, grazie alla sua recitazione, nel vero e proprio attore feticcio di Rosi. Nel 1975, traspone il romanzo di Leonardo Sciascia “Il contesto” dirigendo Max von Sydow e Lino Ventura in Cadaveri eccellenti, un altro capolavoro di intrighi e denuncia che, come hanno scritto, onora il cinema italiano. Meritatissimo il David di Donatello come miglior regista, bissato dopo aver lavorato sul Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, da cui dirige nel 1979, una sua versione cinematografica, sempre con Volonté come protagonista, il quale diventa il simbolo di un forte scontro fra una realtà erudita e settentrionale contro quella ancestrale e contadina del sud Italia. Meritatissimo il BAFTA come miglior film straniero.

 

Le pellicole degli Anni Ottanta. Negli Anni Ottanta, trasforma in Tre fratelli (1981) gli arrabbiati, razionali e utopici Philippe Noiret, Michele Placido e Vittorio Mezzogiorno. La pellicola, liberamente tratta dal racconto “Tretij Syn” di Andrej Platonovič Platonov, gioca sul binomio città/campagna, pubblico/privato, cuore/ragione. E lo fa così bene da conferirgli un altro David come miglior regista, accompagnato da un altro David per la sceneggiatura (scritta con Tonino Guerra) e da un Nastro d’Argento per la regia. Arriva un altro oggetto inaspettato nel suo cinema: l’adattamento cinematografico della Carmen (1984) di Georges Bizet con Plácido Domingo. Qui, il melodramma si fa vitale e sanguinoso, tanto da essere nominato dai BAFTA come miglior film straniero (al suo posto vincerà Il Colonnello Redl), ma anche ai César (per regia e film) e otterrà l’Alitalia Award e numerosi David di Donatello (ancora una volta per regia e film). A questo punto, vorrebbe trasporre “La tregua” di Primo Levi, ma il suicidio dello scrittore l’11 aprile del 1987, lo fa desistere e puntare su qualcosa di più lontano come Cronaca di una morte annunciata (1987), tratto dal romanzo di Gabriel García Márquez, in cui riunisce un cast di volti noti del panorama europeo composto da Gian Maria Volontè, Ornella Muti, Rupert Everett, Anthony Delon e Lucia Bosè. Nonostante questo, è il meno riuscito dei suoi film, sia per i flashback che vengono definiti “tardivi” che per alcuni elementi che diluiscono male la tensione riguardante il rituale dell’omicidio d’onore di un clan in difesa della reputazione delle donne. Eppure, Rosi si guadagna una nuova candidatura ai Nastri d’Argento.

 

Altri progetti degli Anni Novanta. Fra il 1988 e il 1989, gli viene conferito il David di Donatello alla carriera e il Premio Pietro Bianchi, ma Rosi, lontanissimo dal fermarsi continua a lavorare girando Dimenticare Palermo nel 1990, con James Belushi, Mimi Rogers, Vittorio Mezzogiorno, Philippe Noiret e Giancarlo Giannini. Liberamente ispirato dall’omonimo romanzo di Edmonde Charles-Roux, Dimenticare Palermo non riesce a uscire dagli schemi come i suoi precedenti titoli e pecca per palese scontatezza. Ma Rosi è ormai un grande autore e un Maestro, tanto che verrà coinvolto in un progetto a più mani dal titolo 12 autori per 12 città (1990), in cui racconterà con un cortometraggio la sua Napoli, collaborando con altri colleghi (Antonioni, i fratelli Bernardo e Giuseppe Bertolucci, Mauro Bolognini, Alberto Lattuada, Monicelli, Olmi, Pontecorvo, Soldati etc). Ma Napoli è protagonista anche di un documentario tutto suo dal titolo Diario napoletano (1992), in cui viene elogiata e bistrattata per sprechi e spese inutili.

 

L’ultimo film: La tregua. È il 1997, quando finalmente riesce a portare sul grande schermo La tregua che gli farà guadagnare il suo ultimo David di Donatello come miglior regista e una candidatura per la sceneggiatura scritta con Sandro Petraglia e Stefano Rulli.

 

Leone d’Oro alla carriera nel 2012. Nel Duemila, dopo decenni di assenza, torna alla regia teatrale, e in particolare quelle di opere del repertorio di Eduardo De Filippo (“Napoli milionaria”, “Le voci di dentro”, “Filumena Marturano”) interpretate da Luca De Filippo. Nel 2008, ottiene l’Orso d’Oro alla carriera al Festival di Berlino e persino la Legion d’Onore. Il 12 maggio 2012, la Biennale di Venezia lo innalza con il Leone d’Oro alla carriera in occasione della 69° edizione della Mostra.

 

Unico grandissimo amore della sua vita è stata Giancarla Mandelli, sorella della celebre stilista Krizia, che è deceduta all’Ospedale Sant’Eugenio di Roma in seguito a ustioni di 3° grado sul 100% del suo corpo. Colpa di una sigaretta che avrebbe incendiato l’abito scatenando poi un incendio in tutta la sua abitazione. Rimane la figlia, l’attrice Carolina Rosi.